40 | L’assedio delle ceneri (di GF e Roberto Paci Dalò)

2008

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Messa in scena:
Napoli Teatro Festival, 2007.

Edizione:
Prediche per il nuovo millennio, a cura di GF e Renato Quaglia, Venezia, Marsilio, 2008.


Roberto Paci Dalò / Gabriele Frasca, L’assedio delle ceneri (2008) (di Roberto Paci Dalò) 8:56


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L' Assedio delle Ceneri (2008)


Giacomo Lubrano

L’Inventario dei Beni temporali scritto nella Polvere

(riduzione di GF)

Memento homo, quia pulvis es. Così comincia, così finisce l’inventario dei beni temporali, compilato in breve dalla Chiesa curatrice dei cristiani, e pubblicato da’ singhiozzi del sacerdozio a tutti noi, come a primogeniti del loto, eredi ab intestato della putredine. Ingannata vanità dei mondani, non vuoi riconoscerti per orfana della fralezza: e benché si veggano in ogni giorno ombre di vespro, in ogni cielo malinconie d’eclissi, in ogni mare secche di naufragi, in ogni terra fosse di sepolcri, in ogni strada processioni di esequie, in ogni casa stracci di lutto, in ogni corpo sintomi di morbi, in ogni vita sequestri di morte, quasi non toccasse a te, ti scuoti di testa con abituata inavvertenza le denunzie d’incenerita. Ma sbattetevi concupiscenze deluse, che per quanto vi raggrandite ne’ possessori del mondo, non potete fare un passo oltre la tomba. Le ceneri vi composero, le ceneri vi distruggono. Le carni che v’impolpano, gli sfoggi che vi adornano, le delizie che vi ricreano, le fortune che vi favoriscono, le glorie che vi corteggiano, son ipoteche di ceneri. Per quanto le politiche vi riempiano il capo, non sapran mai declinare l’indeclinabile verbo Morior. Per quanto le prefetture v’innalzano, non si lontanano un passo dalla caduta. Se le ricchezze vi gonfiano, alla fine si strangolano dai lacci di un Lascio; se la libertà dei piaceri vi diverte, tiene in sacca il Capiatur dell’interna corruzione; se le scene dei festini v’incantano, fan sempre l’ultimo ballo della torcia nei funerali. Dalla nascita liquidossi con le lagrime il peso dell’eredità vincolato alle perdite. Né si fiata senza che l’aria stessa vi ricordi il nostro essere differenziarsi per una sillaba al non essere: col vivere si respira, col morire si spira. Ceneri, ceneri, reliquie del difetto, estratti della miseria, atomi di vilipendi, nausee di cimiteri, escrementi della morte, mobili del tempo rimangono ai più felici, ai più grandi discendenti di Adamo.
Egli non v’ha cosa più necessaria a sapersi, e men saputa, del tempo. Molti lo studiano per esercizio dell’ingegno, pochissimi per approfittamento dell’anima. Si avviluppano quanti ne discorrono senza intenderlo. Non è nulla il tempo, perché principia e finisce; non è qualche cosa, perché sussiste in due mezzi nienti di un fu, di un sarà, che non sono. Aborto mostruoso non comparisce mai intero, non potendo unire nel presente il passato, e il futuro. Si precipita ad afferrare ciò che viene, e perde ciò che venne. Successivo alimentasi con le limosine di un prima, di un poi, e più si affama; mentre il prima e il poi non mai s’incontrano. Che stravaganza di essere! Fuggendo da sé, lascia di esser tempo se si ferma. Atto non attuato sempre in potenza, alterazione sempre alterabile, quantità d’indivisibili sempre divisi, gruppo di numeri sempre rotti in un zero; flusso e riflusso di minuti, s’inghiotte, e rivomita, embrione incanutito, bambino decrepito, con perpetui riavvolgimenti agonizza sempre in transitu.
Il primo bene è l’esser della vita, ma sì caduco, sì misero, che non può durare se successivamente non muore. Nulla possiede di presente, mentre quel che visse, trascorse; quel che vivrà, non è giunto. Mentisce chiunque dice, Io sono. Fosti vivo, e sarai vivo col forse. Vivi le morti del tempo che fu, muori le vite del tempo che sarà. Parla da grossolano chi dice, Il tale morì di subito. Che subito? Finisce di morire chi muore, comincia a morire chi nasce. Ogni istante d’ora, scava un po’ di terra alla fossa; ogni fiato ne porta via una particella di vita. A dir vero, dicasi che si muore per diastole di troppa allegrezza, come Publio Crasso strangolato dai suoi cachinni. Che si muore per sistole di malinconia, come Basilio duca di Moscovia, il quale alla nuova del suo esercito sconfitto, pose in fuga l’anima in una boccata di sangue. Che si muove talvolta in sonno, come Platone, lasciando testamentario un letargo delle sue idee. Che si muore nelle giostre dei torneamenti, come Enrico Secondo di Francia, avvedutosi sotto la visiera che la morte non usa armi da scherma, e colpisce alla cieca. Che si muore per insidie, e fu Prirro re dell’Epiro, che fiaccato da un tegolo non giunse a tetto di sue vittorie. Si muore per veemenza di freddo, di caldo, a sbattimento di febbri, a strette di spasimi, a dolori di colica, ad urto di calcoli, a sincopi di fame, di sete. Chi può numerare le morti che navigano nei naufragi, precipitano nei dirupi, tumultuano nelle risse, marciano nelle battaglie, s’impennano da saette, si attraversano nelle geniture, soffian dall’arie infette, si sorbiscono nei veleni. E tante che rondano commissarie del caso, si lancian da fulmini, piovono da influenze malefiche. Ma per varissime che sian le morti, niuna dee chiamarsi subitanea, impensata sì. Niuno muore di repente, da smemorato sì. La dimenticanza è la peggiore apoplessia dei viventi. Non usa metafore, non vende paradossi la Chiesa, intimando all’uomo: Pulvis es. Tutti siam polveri vive, per voltarci in polveri morte. Del tempo eziandio lunghissimo non possediamo che un momento, un nunc, inesplicabile nella lingua volgare, che l’esprime: ora, adesso; e pur l’ora si misura da due centurie di momenti. Un nunc è nostro, hoc nunc sumus. Un minuzzolo di durazione velocissima, un atomo brevissimo del transitorio, un zero dell’effemeridi, un cencio dell’oggi, un crepuscolo del domani, simile alle scintilluzze che a spegnerle non vi vuol più che accenderle. Questo nunc è nostro: spruzzolo, che nella prima stilla si assecca; fiorellino, che nello spuntare è vizzo; fioccolo, che a un fiato d’aria è disperso. Un’orma leggera di due velocissime pedate in un passo. Un punto impercettibile di due parti non mai simultanee. Un mezz’essere difettivo che, nell’entrare la vita nel corpo, la condanna a morire.
Quindi disperano le industrie dell’uomo di fermare per un attimo le fughe del tempo. Lambiccano antidoti preziosi, e spiriti di quintessenze, ma i sali dell’alchimia non rendono insipide le carni alla gola del tempo. Ludovico XI, re di Francia, impaurito a’ riverberi dell’estremo momento, sborzava ogni dì cinquecento scudi d’oro al suo medico, portando seco nei viaggi una mumia per salvaguardia degli anni; ma nulla valsero a comperarli la proroga della vita. Beffavasi Roma dell’imperadore Antonino Pio il qual, incurvato nella natura, cingevasi di tavolette le spalle, e ‘l petto, alfin di sostener ritta la persona, e puntellar le mura caditicce del corpo. Havvi chi si consulta con gli astrologi, per incappellarsi un’ombrella contra i soli perpendicolari del fato, e subornare le stelle a farsele propizie ne’ pericoli. Non manca chi picchia alle porte degl’incantesimi, per ottenere il non gravetur da magici secreti. Altri vanno in cerca della contrerba, che tre volte ringiovanì nel secolo ultimamente passato Guglielmo Postello; e pagherebbono un tesoro le sette anella donate da Jarca ginnosofista nell’Indie ad Apollonio Tianeo, per isposarlo alla robustezza oltre il centesimo. Questa frenesia nei legatari del tempo di pretendere la manotenza dell’instabile, e di porre sulle colonne del vivere il più oltre, passando dal Mediterraneo de’ fragili all’Atlantico de’ perpetui, sveglia le vendette di Dio a profondarli a mezzo dell’età nelle ceneri. Osservaste mai l’infelicità di quel ricco massaio nell’Evangelio? Non si legge ch’ei rubasse nulla a’ prossimi, che s’imbrattasse d’adulterî, di omicidî, che spargesse calunnie, che commettesse sacrilegi. Donde dunque la severità del gastigo? Forse perché desinava lautamente, che riposasse in morbidezze? Ma che delitto è mai godersi alla larga del suo senza pregiudizi del terzo? Che rifabricasse nuovi granai a sicurar la copia de’ raccolti? Che facesse seco i conti da mettere a coperto la sua roba? Volete saper la colpa capitale, che ‘l condusse a sì mal punto? Fu stimarsi padrone del tempo, ch’è tutto di Dio. Credersi d’avere in cassa un gran contante d’anni da spenderli in allegria, d’invitare alle crapule anche l’anima, come fosse da bestia, restandogli un longhissimo spazio di vita. Qual baldanza più matta che chiudere in un sacco sdrucito di momenti le rimesse di un secolo, dove la Morte sta sempre con l’armi in mano a distruggere i beni del tempo.
Viddi io un mazzetto di quei serpentelli di vetro foggiati a fantasia da’ vetrai, un po’ grossi da un capo, dall’altro assottigliati in capelli. Se nell’ultima punta si rompono, tutto il rimanente scoppia sfarinato in minutissimi fregoli. L’Accademie di Olanda, di Londra, di Bologna penano a rintracciare il perché, al taglio d’una minima scheggia, consequiti lo stritolamento delle parti non tocche. E pensan che il vetro infocato, nel filarsi gittandosi tosto in acqua, si affreddi nella superficie, rimanendovi dentro certe gocciolette, o bollicine, non potute indurire; onde, violentate nella clausura, un tantin che si spezzino, tutta la massa sbriciolata a scaglie si dissipa. La sperienza d’effetto così strano osservasi continuo ne’ corpi umani, i quali spesso all’urto di leggerissimi colpi periscono. Una spina che si attraversi nelle fauci, una brina di tossico nelle arterie, un alito di aria pestifera, un’afa di lampo, l’apprensione di un sogno terribile, la morsicatura di uno scorpioncino, ha strappata a molti l’anima.
Questo bel dono della sanità che comprende tutti beni corporei, necessaria all’uso de’ sensi, innamora il cuore umano. Se manca la sanità, i ricconi da pezzenti mendicano rimedi, i felici inciampano nella miseria, i savi intisichiscono nell’ingegno. Tolta la sanità, i diletti si attristano, i riposi s’inquietano, i gusti si amareggiano; ogni morbidezza di bissi è sacco di penitenza, ogni ricreazione una seccaggine di tedi, ogni musica un treno di sospiri, ogni palagio è spedale, ogni trono di fortuna centro di affanni. Né disse male il Poeta: Non est vivere vita, sed valere. Ella, però, la sanità censuaria d’infiniti morbi, che or soli or congiurati insieme l’assaliscono, si appoggia a colonne di ghiaccio rompevoli sì che un catarro l’annega, una febretta la snerva, una stretta di dolori la consuma; né dee procurarsi come fine, ma come mezzo da meritarsi l’immortalità. Intendetela dunque voi, che la distemperate in disordini di ubriachezze, di crapole, d’impudicizie, e per mantenervi sani vi burlate delle Quaresime, delle Vigilie, impazienti di un digiuno, di una mortificazione: la sanità da un gran bene nella vita, farsi un grandissimo male nella morte. Oh, ignobile appetito da bestie, ingrassar la carne per tinello de’ vermini!
Che direm della bellezza incantatrice de’ sensuali, che spesso perdono l’anima in mirarla, né pensan, col Tragico, essere una fragilissima spoglia del corpo, di brieve durata, avendo quasi sempre la precedenza al sepolcro chi eccede molto nel bello: Quae spectatissime florent, celerrime marcescere. Ammetton le leggi come testimonie le femmine negl’inventari; e basteranne una sola per tutte, Jezabele. Regnò costei, più che leggiadra di volto, più che idolatra di fede, così padrona del re Acab suo sposo, che lo spinse a insanguinar lo scettro  con la stragge de’ sacerdoti, usando tutte le insidie per uccidere Elia. Rimasa alla fin vedova, invece di vestirsi a lutto diessi ad acconciare la faccia, ad abbigliarsi di gale, miniando con non so qual brunitura il nero degli occhi, inanellandosi nastri d’oro le trecce, in un andamento spruzzolato di vesti. Così parata, affacciossi da’ balconi per tirare a sé la vista e l’affezione di Jehu, successore al reame. Il nuovo dominante, descritto appunto in fattezza del Tempo affrettato di passi, nell’ingresso solenne, vedutala ingessata di rossetti, con gesti di meretricie lusinghe, comandò che la precipitassero giù dalla finestra alla piazza. Piano, o Jehu, non si convengono voci sì disumane. I primi bandi della maestà debbono articularsi dalla clemenza. Sei re, rispetta una regina. Sei giovane, intenerisciti ad un’amante. Merita cortesie di onori, non rigidezze di supplicî, una dama abbellitasi per onorar la festa de’ tuoi trionfi. Se in giorni di giubili non perdoni, quando farà mai luogo di mostrarti benefico? E che? Pensi di fare il mandatario di Elia, per vendicar le ingiurie de’ Profeti? Lascia a’ suoi ministri il condannarla se è rea, dopo gli esami giuridici per debito di giustizia. A te riserba per diritto di gentilezza il far grazie; e di più per interesse di fama. Con dar vita ad una, ti obblighi la benevolenza de’ sudditi. Se condanni chi spasima di esser tua, svegli l’odio di chi ti serve. Sarà forse nuovo delitto il comparire da bella? Deh, mostra che t’incoroni per merito di valore, non per fierezza di genio. Vergognati che negli annali i posteri t’abbiano a chiamare l’occisor delle femmine! Io parlo in vano, Jezabele, tutta guasta dal precipizio, giace insepolta in un sanguinoso letame! Un branco di mastini l’abboccona come lupa; e da Cerberi come a Furia le celebrano co’ latrati le esequie. Poche ore tramezzarono tra una regina bellissima e una carogna vilissima. Niente più rimase di lei che la calvaria smozzicata con un ciuffo di verminosi capelli, e le punte scarnate delle mani, e de’ piedi. Questo fu l’inventario delle sue sembianze, delle sue pompe. In un frantume di ossa svanirono quei pezzi di sole nel viso; e le stelle imbrunite degli occhi si estinsero canicolari, perché divorate da cani. Ciò che fece Jehu, il tempo fa per gastigo di tante donne invanite nella leggiadria de’ sembianti. Sempre a strebbitarsi, a ripulirsi, a mentir quel che non sono co’ volti posticci, senza riflettere che marciranno fracide nel sepolcro. Sappiano ancora tanti giovani con le zazzare sparse a polveri di Cipri che, vagheggiando donne, sacrificano in ogni occhiata l’anime morte a diavoli. Il Salvatore a santificare l’adultera, scrisse in terra la cedola del perdono, digito scribebat in terra, perciocché poco giovano le confessioni, né si sciolgono assolute le coscienze lascive de’ fornicari, se ‘l pentimento de’ peccati non s’imprime alla memoria delle ceneri.
Or, se da’ beni del corpo vogliam passare a’ beni di fortuna, ricchezze, parentele, dominî, magnificenze di titoli, nell’inventario del tempo non son che mondiglie di polveri, reliquie di putridami. Sant’Agostino non finiva di smentire l’avarizia che continuo soffia nell’orecchio dell’uomo: «Provediti, accumula robe, poni in salvo le monete, pensa all’avvenire. Consule in posterum». E quanto durerà cotesto in posterum? E se la vita incertissima non è che di mesi, di giorni, non vanno in nulla le speranze, non son perdute le fatiche? In quantum posterum? In dies paucos, et incertos. Ricchezze, o scialacquate in abusi o acquistate con frodi, presto si dissipano, e si confiscano da fallimenti. Un santo computista sottrae da ogni scrigno d’illeciti guadagni, da ogni cassa di telonii, da ogni fondo di estorsioni più sequestri di morte, in singulis lucris singulas mortes. Io ben conosco quanto sia connaturale ad ognuno il lucroso che piace, l’utile che felicita, né pretendo di persuadervi l’abbandonamento de’ patrimoni. Accresceteli, ma non vi entrino in cuore. Non vi predomini l’ingordigia, perocché tanto nuociono, quanto si amamo; tanto avvelenano, quanto s’inviscerano nello spirito. Stupivasi il Filosofo che gli uomini, incuriosi del dove vanno a parare, trangosciano, s’impazientano, si disperano per un scapito di robe, dovendo alla fine spropriarsi del tutto. Le baronie, le ville, i palazzi, l’argenterie, i parati, gli erari son depositi a tempo, non cenzi perpetui. Ne siete padroni superficiari. Se vien manco il fondo nelle ceneri, rimanete più ignudi del nulla.
Chi di voi capisce il paradosso racchiuso in queste tre sillabe del Memento? Non par detto a proposito. Ricordati che sei polvere, e sarai polvere. La memoria si specifica nel passato. Le sue tenute si restringono fra’ confini del Fu. La sua potenza è uno spedale di specie muffe, un fondaco di stracci vecchi, un archivio di notizie anticate, una dispensa di cibi stantii, un onomastico di preteriti. Il presente tocca la vista, il futuro la fede. Come dunque s’inviluppano gli oggetti? Se son polvere posso vederlo, se sarà polvere posso crederlo. Non posso però ricordarmi di quel che sono, o sarò. Se la Chiesa mi avvisasse che prima di nascere fui un niente, nel nascere un embrione di sozzure, l’intenderei. Memento: questo è un anacronismo poetico più che un monitorio evangelico. Ciascun mira in sé vivo il corpo, vivi i sensi, viva l’anima. Veste comodo, si ciba lauto, compra nuovi stati, raddoppia rendite. Dov’è la polvere? Pulvis es. Non discorrete così. Or sentite il vero verissimo, correggendo la fantasia ingannata. I giorni presenti, i giorni futuri si misurano a piccioli istanti; e perché velocissimamente trapassano, possono notarsi in libri di memoria, e mettersi a conto di polveri. Né iperboleggia Tertulliano, chiamando la vita emulatrice della morte; perché tanto è morta, quanto è vivuta. Sì, polvere siamo, e ombre. E chi ha netto l’occhio della fede, confessa che polveri tessute sono le tappezzerie de’ broccati, degli arazzi. Polveri spendibili le monete, polvere viva la sanità, polvere spirante la vita. Sbattasi il capo la vanità, voglialo o no, che in polveri sfondano le preminenze dei posti, il polvere si sfilan le sciamberghe, le toghe, le porpore. Da polvere si scancellano le cedole de’ privilegi. In polveri si sfasciano i cocchi della fortuna. Nelle polveri si sfarinano i cavalloni della grandezza, nelle polveri scoppiano le sanguisughe degl’interessi. Giuspatronati di polvere sono i paradisi della terra.
Questa verità fissa dal Memento nella memoria, fa’ distaccare la ragione da’ beni transitori, raffredda l’ansie di accumulare nell’inventario del tempo. L’inganno delle nostre immaginazioni vien da un solecismo, che con manifeste sconcordanze copiate dal galateo della convenevolezza civile pasteggia nelle bocche di tutti che parlan, e rispondon, di noi, di voi, come fossero più in un solo. Che noi? Ciascheduno è un meschinissimo io, un singulare con la pluralità di molte miserie, un individuo rappezzato di cartilagini. Sia un Alessandro nelle vittorie, un Cesare nell’imperio, un Ercole nella bravura, un Trismegisto nel sapere, che non è, se non uno? E, finita la scena di un vivere mortalissimo, non rappresenta che ‘l personaggio di uno scheletro roso di polveri. Lessi già che i barbari dell’America, a vendicarsi delle angherie dei negozianti, cacciavan loro in bocca oro liquefatto e bollente, sbeffandoli: «Felici voi che bevete ciò che rende assetati tanti popoli d’Europa!» Qual pena meriterebbon certi epuloni dell’avarizia, briarei di usure, sempre in cambi e ricambi di terra, senza una rimessa pel cielo? Sappian che per quanto traricchiscon co’ monopolî, per quanto riempiano il cofano di latrocini, non si ritroveranno in pugno nelle agonie che un affannosissimo niente. Anche innocenti le ricchezze son perniciose, testimonio Leone IV, imperatore, il qual, pazzamente invaghito del suo diadema ingioiellato da preziosissime gemme, col tenerselo in testa eziandio nelle cene, nelle cacce, nel letto, ammalatosi al troppo peso ebbe un colpo di mannaia dalla corona. Testimonio Paolo II che, continuo in tastare incastrature di grossi diamanti, si estinse gli spiriti vitali. E fu la prima volta che ‘l mal di pietra, impigliatosi alle mani di un Sommo Pontefice, coll’anello piscatorio suggellasse gli articoli della morte.
Accidenti così funesti in due massimi, mi trasportano a’ beni signorili della potenza che, corteggiata da glorie, con podestà di comandi, non si tiene obbligata a farne inventario. Passa una strettissima parentela fra la grandezza e la dimenticanza della morte; e vi vuole un mezzo miracolo ad affiggere il Memento in casa de’ principi. La regia del re Baldassarre stava sì chiusa da vaneggiamenti insuperbiti, da splendidezze di lusso, che ‘l tempo a gittarvi dentro le sue polveri ebbe a scalar le mura, rampicandosi improvviso alla sala dove banchettava di notte adulato da satrapi, vezzeggiato da concubine. Alla vista de’ portentosi caratteri scritti dalle dita non sapeva di cui, forte turbandosi, domandonne il significato da’ commensali, ma niun poté decifrare il semso, che i savi di corte, ignorantissimi, non intendono punto i linguaggi del vero, né sam computare due sillabe nel libro della morte. Sol Daniele, come che schiavo, con libertà da profeta, chiamato ad interpretar la scrittura: «Re», disse, «sei finito. Nelle stadere di Dio, non pesi più che un cadavero. Poco ti riman di vita, nulla di regno». A vaticinio così terribile, attonito l’empio regnante, non ravveduto, pensò di sottrarsi alle minacce del perentorio, con regalare e porpora e tracolla d’oro all’interprete, ma nella medesima notte venne ucciso, lasciando nell’inventario della monarchia caldea l’infamie del suo nome, i vomiti delle sue crapole, le ceneri della sua dannazione.
Maledetta strega si è la potenza. Assorda i suoi maggioraschi incantati dalle apparenze, perché non si conoscano feudatari del tempo. Filippo di Macedonia, ricchissimo per le rapine di tutta la Grecia, stimando nobiltà del potere l’assassinamento de’ sudditi, né ammettendo altro consigliere che l’utile, né areopago che la cortina del trono, e che in bocca dei corteggiani era il sopragrandissimo che non capiva nel mondo, l’invincibile, il felicissimo sangue puro de’ dei, il Giova fra’ monarchi, un dì cadde. E mirata la sua figura impressa nella polvere non più lunga che sei palmi: «En veritas», confessò, «sed in pulvere veritas. La terra hammi chiarito delle finzioni. Mi lusingano per massimo, quando occupo sì corpo spazio!» L’ampiezze dei reami non aggiungo un dito all’ombra del corpo. In un altro specchio si mirava Filippo II, quanto più opaco, più diafano, più veritiero. Per non incenerirsi Signor di due mondi, teneva nel gabinetto il cranio del suo gran padre, Carlo V, e vi si faceva sovente a riflettere dove terminavano le idee degl’imperi, in un frantume di quattro ossa, nausee del sepolcro. Non occorreva che Solone, oracolo de’ repubblicisti, morendo imponesse agli eredi di spargere in forastiere province le sue ceneri come estratti di disinganno, ché ciò fa continuo il tempo, struggendo in polvere l’altezza de’ sovrani, la luce de’ serenissimi, finché la gloria strepitosa de’ titoli, ammutolita nell’oblivione, rimanga una mondiglia di polveri, una larva di vocaboli morti, una raditura di epitaffi. Osservaste credo più volte quelle immagini dipinte in lanternoni di carte, solite di accendersi nelle pubbliche allegrezze sulle logge de’ tetti, che agitate dal fumo lentamente volteggiando lampeggiano. Paiono da lontano costellazioni, ma poco durano. Ad un soffio di vento gagliardo, ad un rovescio di pioggia, o si bruciano o si ammorzano. Ludibri di ombra, e di puzza. Non altrimenti le pompe de’ beni temporali spesso dilettano ad ore, e periscono in lutto. Il cardinal Pietro Damiani attribuiva al misericordioso giudizio di Dio la brevità della maggior potenza ne’ Sommi Ponteficati, a persuadere quanto poco sia da prezzare ogni gloria temporale, mentre con le chiavi del Cielo non potean chiudersi le sepolture. Leone X visse ventitre giorni, Celestino IV diecesette, Damaso II ventitre, Bonifacio VI quindeci, Pio III ventisei, Urbano VII sette, Stefano II quattro, Marcello II ventuno. Ecco i termini del primo imperio, poco men che effimeri.
Se dunque co’ beni soggetti al tempo il tutto sfonda in un’urna di ceneri, chi non registra gli obblighi che deve alla coscienza, alla fede, a Dio, giunge sempre fallito alla tomba. Che riman di tanti grandi nel principio di questo secolo, ora sotterra, se non un puzzolentissimo mucchio di polvere verminose. Chi si piglia bel tempo, è schiavo del tempo. Il tempo è un bene che degrada col crescere, si accorcia con l’allungarsi; nei suoi calcoli, il moltiplicare è sottrarre. Nel suo monopolio, il guadagno è perdita. Quanto dura, tanto ci strappa di vita. Disfà quanto fa. Quanti giorni dona, tanti ne ruba, simboleggiato da’ mitologi in Saturno che divora i suoi figli. Meditava Agostino piangendo la smemoragine di coloro che continuano il carnevale nelle quaresime, fomentano le intemperanze ne’ digiuni, né mai pagano il censo a Dio de’ beni del tempo, consumandoli in accomodarsi di qua, senza pensare a’ beni eterni di là. Deh, carissimi, se ‘l tempo presto o tardi vi toglie ciò che vi dà, affezionatevi a cose che non posson alienarsi dal tempo. Tutto l’anno si spende a servizi del corpo, riservate qualche giorno all’anima. Non vi scotete la polvere dal capo, che se vi si ferma il Memento del transitorio che fugge, basta a farvi degni di una beata eternità, che non manca. La Chiesa vi minaccia, perché vi ama da madre; e giura, per questa croce di cenere che vi segno sulla fronte, che me l’avete a pagare morendo.


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[GF, Enzo Moscato, Roberto Paci Dalò]